Perdono | Dolore | Sofferenza | Buddha | Anoressia | Violenza | Famiglia | Meditazione | Morte
Centro Italiano di Meditazione



Quando m’imbattei nel Dhamma e negli insegnamenti buddisti pesavo ormai 36 Kg. All’età di 27 anni si dovrebbe pesare molto, molto di più. Ero ancora in terapia, una terapia che mi aveva aiutato molto e che mi aveva strappato fino a quel momento all’abbraccio confortante della morte. Ma non ero ancora riuscita a salvarmi. Il mio aspetto era spettrale. La pelle, quasi trasparente ed asfittica, ricopriva a mala pena ciò che rimaneva del mio corpo. I tratti caratteristici del mio viso erano del tutto scomparsi. Il mio teschio era adornato solo da pochi capelli sfibrati ed era incastonato da due occhi grandi come la tristezza, il dolore e la voglia di morire che mi portavo dentro.
SuttaMagga


ARTICOLO
Il Buddha alla mia Tavola
Testimonianza scioccante
Il racconto incredibile di un'allieva e dell'inferno da cui è uscita. Il racconto è stato volutamente tagliato nelle sue parti più crude e crudeli ed inoltre è stata preservata la riservatezza.



La sentenza era stata chiara: “Anoressia allo stadio terminale”. Avevo ancor poco tempo per poter invertire la tendenza, altrimenti il mio corpo martoriato non avrebbe avuto più possibilità di riprendersi.
A quella sentenza di morte sentii finalmente un senso di pace. Sentii, per la prima volta, sparire la morsa della mano di mio padre sulla mia bocca per impedirmi di urlare. La morte sembrava una valida alternativa agli incubi e al disgusto che provavo per me stessa e per la vita.

Avevo 12 anni quando mio padre cominciò ad abusare sessualmente di me. La sua violenza domestica non solo era incorniciata dal silenzio-assenso di mia madre, ma anche di quello di mio fratello maggiore, che cominciò anche lui a farmi visita in quelle notti in cui mio padre era troppo ubriaco per alzarsi dal letto. A 15 anni il mio viso aveva le sembianze di una donna sfatta e arresa. Il mio totale abbandono e l’assenza della protezione di un famiglia di supporto, fecero da apripista alle violenze sessuali di altri parenti e di alcuni amici di mio padre. Come se fossi stata una bambola con cui giocare. Un oggetto senza anima e senza dignità. Ed è così che finii per sentirmi.

Rimasi incinta e, inutile a dirsi, questo esserino poteva avere innumerevoli padri, come io avevo avuto innumerevoli padroni. Quando nacque il bimbo, fu dato subito in adozione e non ebbi nemmeno il tempo di salutarlo e di vederlo.
A 17 anni ebbi la possibilità di cominciare a lavorare. Gli studi andavano male, anche se mi faceva soffrire lo stupore delle mie insegnanti e la loro totale indifferenza. Avevo sempre amato leggere e studiare. Ma non avevo più voglia nemmeno di guardarmi allo specchio.

Non riesco a stabilire esattamente il momento preciso in cui decisi (inconsciamente, o forse consciamente, ma l’ho rimosso) che l’avrei fatta finita. Questo mondo era troppo ostile per me e anche io per lui. Quando non ero apatica e completamente indifferente, avevo degli scoppi di ira e cattiveria da farmi apparire come la persona più diabolica del mondo. Non mi importava nulla del resto. Il mondo e la sua folle indifferenza mi era estraneo. Sentivo una grande solitudine dentro di me che avrebbe potuto sgomentare fino alla follia qualsiasi altro essere vivente.

Per fortuna, incontrai un ragazzo più grande di me che grazie alle mie sembianze (di nuovo) riuscì a portarmi via dall’inferno in cui ero nata. Dico le mie sembianze, perché non so proprio cos’altro avesse visto in me. Non so se sarò in grado un giorno di riconoscergli la mia gratitudine per questo gesto. Non ho più sue notizie oggi. Suppongo che mi amasse davvero in qualche modo. Certo, per quanto è possibile amare un cadavere che lentamente si stava disgregando. Inoltre, io non ero assolutamente in grado di riconoscere l’amore. Non ne sospettavo neppure l’esistenza!

Come ho già detto, ero totalmente sola e non avevo amici, per cui tutti gli amici che frequentavamo erano quelli del mio ragazzo. Alcuni erano veramente gentili e pazienti con me, nonostante le mie battute acide, i miei silenzi, le mie assenze al tavolo per la cena e alle ricorrenze. Alcuni, oltre alla gentilezza, vedevano anche oltre.
Credo che se uno si concentra molto bene sulle persone che incontra, possa essere in grado di vedere di più che delle semplici ombre che intersecano il nostro cammino. Credo che il dolore e la solitudine della gente non passerebbero inosservati. Ma forse è proprio per questo che continuiamo a rimanere in superficie. L’intimità ci atterrisce, sia con noi stessi che con gli altri.

Non so se l’amica del mio ragazzo fosse un angelo. Naturalmente credevo agli angeli caduti, all’inferno, non certo a quelli che arrivano da dimensioni paradisiache. O meglio, che a me sembravano paradisiache, quando invece, forse, erano solo la normalità. Mi era completamente estranea una dimensione fatta di pazienza, disponibilità ed attenta cortesia che quella ragazza mi dimostrava.
Fu allora che, grazie a lei, entrai in contatto con le nozioni basilari del buddismo. Il Buddha per me era stato fino ad allora semplicemente un bel libro di Hermann Hesse, o qualche esotica statua in paesi lontani da me anni luce. Troppo, troppo lontani. Ma la cosa che mi incuriosiva era la gentilezza che quella ragazza mi dimostrava, una qualità che, anche se lungi dal conquistare la landa desolata e congelata della mia anima, in qualche modo aveva un effetto confortante in quel mare di dolore in cui navigavo.

Cominciai a frequentare il centro in cui andava lei. In tutti quei mesi in cui andai in quel centro sentii farsi spazio dentro di me un bisogno di pace e di armonia. Non credevo (ancora) che la mia sofferenza sarebbe stata estirpata, come il Buddha proclamava, ma sentivo che alcune di quelle verità e di quegli insegnamenti erano divenuti balsamo per le mie ferite, un unguento che a tratti faceva smettere il continuo grido di dolore che riecheggiava nella mia testa.
Lo strazio di portarmi appresso la mia carcassa diventò più sopportabile. In poche parole, attendevo con meno tristezza il poco tempo che mi rimaneva di vivere. Ma, comunque, per me la morte continuava ad essere l’unica soluzione possibile ed applicabile.

Il centro buddista chiuse per la pausa estiva, e in quel periodo sentii di nuovo quella morsa malefica afferrarmi il petto e rigettarmi nel tetro e freddo buio della mia povera esistenza. Il flebile calore di quella fiammella si inabissò di nuovo nel freddo glaciale della mia solitudine. I ricordi tornarono a tormentarmi e il delirio della mia sentenza di suicidio riprese a galoppare verso il traguardo finale.

Fu allora che mi imbattei per caso (ma veramente esiste il caso?) nella possibilità di intraprendere un ritiro buddista online. Il maestro era molto lontano da me, e per quello che ne sapevo, poteva essere un altro inganno della rete, che spesso organizza incontri solo per reclutare donne sprovvedute e sole. Io ero sola, ma non certo sprovveduta. Non avevo nulla da perdere. Per curiosità e in attesa della riapertura del centro dopo l’estate o della mia fine, provai.

Cominciai a meditare secondo un metodo che il maestro sosteneva appartenere agli insegnamenti originali del Buddha. Iniziai a sperimentare una disciplina meditativa diversa, fatta di sensazioni, percorsi, tappe, domande di verifica e spiegazioni. Cominciai a provare l’irrefrenabile impulso di usufruire di quelle spiegazioni e di quella guida. Quelle sensazioni a volte mi facevano male, ma mi ricordavano che ero viva. Alla mia diffidenza pian piano si sostituì una totale curiosità, una voglia di andare oltre. Il ritiro online a tempo, divenne un ritiro perenne. Il maestro mi seguì quasi quotidianamente per la bellezza di 4 anni. Senza mai interrompere la sua costante presenza, la sua compassione. Senza perdere mai la sua fiducia e la sua perseveranza.

Mi trasmise il dono inestimabile di credere che quelle qualità che riconoscevo in lui, erano anche dentro di me. Cominciai a sentire ad ogni giorno che passava che quell’alone di morte, che mi aveva strangolata fino ad allora, era solo il silenzio della lunga distanza che avevo preso da me stessa, allontanandomi sempre di più dalla dimensione di rispetto e amore che non credevo affatto fossero possibili, figurarsi nascosti.
La meditazione divenne la mia amica. La mia unica amica. In quello spazio conobbi la cessazione delle afflizioni di quegli spettri che torturavano il mio corpo e la mia gentile vanità di donna. Incominciai a vincere le mie diffidenze, affidandomi ad essa. Nei momenti in cui tutto mi sembrava ricrollarmi addosso, il maestro con gentile fermezza e amorevole testardaggine, istillava in me il dono della speranza e della compassione. Una compassione che doveva crescere per me stessa, prima di tutto.

Le insistenze del maestro fecero avvenire il miracolo di portare la pratica nella mia vita. La mia vita, in definitiva, era diventata la pratica e la pratica la mia vita. Cominciai a capire le sottili connessioni fra il dimenticarsi di se stessi (e quindi della pratica) e l’acuirsi della sofferenza. Il dimenticarsi di se stessi alla ricerca senza fine di continue illusioni e disillusioni, di vane vincite seguite da disastrose perdite. Il dimenticarsi di se stessi quando siamo avvelenati dall’odio e dal rancore.
La pratica mi portò a vedere che la mia vita (e non solo la mia morte) era nelle mie mani, che il dolore in questa stessa vita era una percentuale infinitesima di quello che avrei scoperto ed in seguito attivato.

Feci la scoperta dei primi stadi meditativi profondi (Jhana), non appena mi arresi all’eventualità che la pratica doveva maturare e che quelle dimensioni mi avrebbero aperto finalmente traguardi ancora nascosti. Credetti alla promessa del maestro, ma credetti ancor di più all’idea di essere sofferente non solo a causa degli altri, ma che la maggiore sofferenza fosse non poter sentire di appartenere alla Mente Madre, di cui avrei fatto la conoscenza di lì a poco.
Uno ad uno i Jhana mi portarono dolcemente in uno spazio mentale dove la rabbia, il dolore e la cieca ferocia erano solo simboli della mia totale ignoranza. Conobbi il gusto della gioia, della felicità e dell’armonia. Tutto dentro di me, senza alcun gesto se non quello di abbandonarsi alla loro possibilità di apparire.

Fu allora che cominciai a sentire una nuova sensazione nascere dentro di me. Avvertii una nausea e un tremore che rimanevano per alcune ore dentro di me, anche dopo la fine della meditazione. Non riuscivo a capire cosa fosse quella strana sensazione, simile ad una spossatezza. Riuscii finalmente a sentire la consapevolezza del mio corpo che arrancava, che soffriva e che era sull’orlo di scomparire per sempre.
Quel tremore continuava per alcune ore dopo la seduta di pratica.

Finché ad un certo punto, un giorno, sentii una calma totale dentro di me e tutto sparì: sia il tremore, che il terrore e la follia di questa vita. Capii che era giunto il momento e che forse stavo per morire. La calma divenne ancora più profonda, più spaziosa e una totale serenità mi pervase, dandomi la sensazione di essere incorporea, eterea, senza limiti. Fu allora che udii forte e chiaro un imperativo che non ammetteva replica: “Mangia... Mangia”. La voce lasciò un’eco infinita dentro di me. Non ci volle molto per riuscire a sentire il mio volto bagnato dalle lacrime. Piangevo per la prima volta dopo tantissimi anni e piangevo perché dopo tantissimi anni provavo di nuovo l’istinto della fame. Sì, quella sensazione di mancanza e di tremore era la fame. Una sensazione che non riconoscevo più da quando ero ancora una bambina.

Cominciai a nutrirmi. Le prime volte furono disastrose, perché il mio corpo non accettava più il cibo e puntualmente vomitavo tutto. Sentii per la prima volta una cura per me stessa mai provata. Provai la sensazione di imboccare un malato terminale, provando una profonda compassione e amore per quel corpo che avevo deturpato e che forse ormai era troppo stanco per reagire. Ma per fortuna non fu così. Improvvisamente il mio corpo non era più un impiccio di cui liberarmi, ma divenne la culla per la mia rinascita.

Cominciai a mangiare come un uccellino, ma tanto spesso da consentirmi di assimilare il necessario. I miei pasti aumentarono, così come anche il mio peso. Presto sarei diventata di nuovo una donna che avrebbe avuto un peso normale. Sarei apparsa di nuovo come una donna e non come un fantoccio fatto di pelle e ossa. Il mio corpo rinasceva. Ricominciai ad avere il ciclo mensile che era sparito da anni. Le unghie e i capelli che cadevano, lentamente si rinforzarono. Cominciai a fare delle cure estese di vitamine e minerali.

Oggi sono una donna adulta. Incontrai di nuovo la mia famiglia, o quello che ne era rimasto, al funerale di mio padre, dove non fui invitata, ma di cui venni a conoscenza. In quell’occasione vidi quanto la nostra mente imbrigliata può distruggere le nostre vite e quelle dei nostri cari. Vidi quello che era rimasto di mia madre e di mio fratello. Vidi la sofferenza che li avvolgeva e li asfissiava senza via di scampo, e vidi anche come ero stata io. Mia madre a malapena mi salutò e io, dopo tanto odio e tanto dolore, sentii una profonda pena per lei e per la sua fine.

Ogni tanto alla mia mente riaffiorano alcune immagini, poche, ormai sbiadite e malconce, immagini di una vita umana separata dalla facoltà di cambiare e dalla fiducia di poterlo fare. Una vita che per fortuna ormai non c’è più. La mia saggezza a volte riproietta questo film sbiadito, solo per rammentarmi dove ero e chi credevo di essere. Per non dimenticare chi sono veramente.

Oggi sono sposata e ho due bambine. Due bimbe che un giorno saranno due donne, come me. Cerco di non dimenticare mai le parole del mio maestro “Tu sei una leonessa”. E’ vero sono una leonessa; oggi lo so! E oggi sono una leonessa libera nella savana, all’interno di una dimensione dove la mia mente non è più sola e smarrita.
Spesso la sera alla fine della cena, quando le bimbe sono a letto, mi concedo un po’ di relax nel patio della mia casa e ricordo la prima volta che incontrai il Buddha e i suoi insegnamenti. Non esiste giorno in cui non gli sono grata per avermi ricordato chi sono realmente.
Fantastico anche, in quei momenti, di poter un giorno conoscere il figlio che ho dato in adozione, il figlio del mio passato, ma a cui penso spesso con tanto amore. Fantastico che un giorno, se ci riuscirò, potrà essere qui, anche lui, a tavola con noi. Tutti assieme, seduti accanto al Buddha, il mio quotidiano ospite d’onore, che da quel lontano giorno non ho mai più smesso di invitare alla mia tavola.

Descrizione
Maestro
Corsi Meditazione
Insegnamenti
Ritiri
Varie
Contatti
Panoramica
Meditazione Originale
Jhana
Vipassana
Samadhi
Samatha
Visione Profonda
Meditazione di Consapevolezza
Corsi di Meditazione
Meditazione sul Respiro
Pratica & Meditazione
Centro
Italiano di
Meditazione
SuttaMagga
CIMSM

AVVISO: Le informazioni contenute in questo sito sono a carattere divulgativo e non costituiscono in nessun caso consulenza di alcun tipo e pertanto non devono per nessun motivo essere usate come sostituzione di un intervento specialistico o consiglio medico. Le affermazioni contenute in questo sito, infatti, non sono intese come diagnosi, cura, o per prevenire o trattare nessun tipo di disturbo fisico o mentale.
Meditazione Jhana e Visione Profonda
Consapevolezza Respiro
Meditazione a Roma
Meditazione sul Perdono
Meditazione Camminata
Soluzioni alla Meditazione
Per qualsiasi problema o errore di questo sito vi preghiamo di contattarci
Sociale
Venite a trovarci su Facebook alla pagina suttamagga.it