Centro Italiano di Meditazione
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ARTICOLO
Domande e Risposte nei ritiri e colloqui
Non sempre quello che crediamo corrisponde ad una visione chiara di ciò che in realtà, invece, si nasconde.
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Domanda: Buongiorno. Allora, io quando medito mi seggo e a volte seguo Metta; a volte, invece, contemplo l’impermanenza e a volte mi abbandono ai colori che appaiono nella mia mente. Altre volte invece c’è un buio riposante che mi abbraccia.
Risposa: Sembra la ricetta per il sugo degli gnocchi (Risate). A parte gli scherzi, non colgo la domanda. Qual è?
D.: Sì, ecco… a volte non riesco a raggiungere una reale meditazione. A volte invece sono in un silenzio profondo e piacevole dove il tempo sembra non esistere e non mi accorgo nemmeno che è passata un’ora.
R.: Beh, non mi sorprende, perché di fatto non si può raggiungere qualcosa che non c’è. Qui non c’è meditazione. Quando si ha un accesso meditativo casuale, anche i risultati saranno casuali e deludenti. Questo problema ha 2 radici, la prima strettamente tecnica, la seconda di ordine più personale e caratteriale. Tecnicamente un approccio confusionario come questo genera ancora più confusione. Quando ci dice bene, allora siamo contenti e pensiamo di aver fatto una buona meditazione. Ma la maggioranza delle volte si è preda del dubbio. E poi quella sorta di stupore piacevole nel buio, poco a che fare con la meditazione, ma più con il sonnellino della siesta (Risate). No, non c’è nulla da ridere. Questo è un aspetto serio che colpisce molti meditanti ed è pericoloso, perché ci dà la sensazione di essere altrove, in profondità, facendoci pensare di essere in contatto con la nostra mente più vera. Ma in realtà è una sorta di torpore languido della mente. La pericolosità è che è piacevole ed ingannevole nel senso di compiutezza e profondità. Si può restare intrappolati lì molto tempo.
D.: E l’altro aspetto, qual è?
R.: L’altro aspetto è più di ordine personale e caratteriale, ovvero quanto in quell’atteggiamento ci sia il nascondersi al disagio di un supposto fallimento. Nel momento in cui provo delle difficoltà, invento dei miei metodi, che portano ancora più confusione, finché trovo momenti in cui quel sentimento di disagio sparisce. E quello per me è la meditazione. E non mi accorgo che ho trovato invece anche sul cuscino un posto dove nascondermi. Inoltre la tendenza a cambiare, a manipolare è tipica di persone piene di controllo, che vogliono mettersi in gioco, ma alle loro regole. Si mettono in gioco come in un servizio fotografico, ovvero hanno bisogno di luci, trucco e un buon fotografo che tiri fuori il meglio di loro. Ciò che si persegue è quanto quel processo ci rende capaci, intelligenti ed interessanti ai nostri occhi. Non, invece, quanto esso tiri fuori la verità.
D.: Scusa Maestro, posso fare una domanda? Ma perché io dovrei cambiare. Io non voglio cambiare. Mi piaccio così come sono. Faccio volontariato da molti anni, ho una vita piena, sono una persona generosa e disponibile. Perché dovrei cambiare?
R.: Beh, innanzitutto il cambiamento non è un dovere, ma un fenomeno naturale. Non accorgersi di questo significa già non seguire le regole di questa vita. Il cambiamento te lo chiede la vita. Se non cambi, non stai vivendo. Infatti la tua sembra una convinzione piuttosto rigida ed imbalsamata. Ed inoltre è quello che pensi tu. In quell’equazione ci sei solo tu e il senso di te stessa che è molto grande. Vedi, quando si ha un’immagine di se stessi così grande è difficile adattarsi. Il cambiamento è adattamento, è comprendere gli altri ed amalgamarsi con le loro vite. Tu puoi pure vivere in un’illusione di non aver bisogno di cambiare. Anche se questo fosse possibile, tutto il mondo attorno a te lo farebbe. Quello di cui tu parli mi sembra un attaccamento affettivo ad una parte di te. Ad una paura di perdersi. Mi spiace che tu stia soffrendo. Spero che in futuro andrà meglio.
D.: Ma io non sto soffrendo!
R.: Beata te, io ho la schiena che mi sta distruggendo oggi (Risate). Anche se tu, per qualsivoglia incantesimo, non soffri, questo non ti mette al sicuro dalla sofferenza di chi ti sta attorno. Se non fossero neppure i tuoi cari, sono quelli che soccorri con il volontariato. Se non ci fosse sofferenza, non ci sarebbe bisogno di soccorso e volontariato. Credo che questo basti per tutti. Il non riconoscere la propria sofferenza in tutte le sue forme, dal semplice disagio alle posizioni rigide e di controllo, quella cecità è la regina di tutte le sofferenze. Perché è una posizione che ci isola e non ci fa vedere come questa rigidità faccia soffrire anche i nostri cari. Il riverbero della nostra cecità rende tutto il mondo attorno a noi buio e freddo.
D.: Seguo la meditazione quotidianamente e ho raggiunto anche i Jhana superiori da poco. Sono molto contenta. Gli insegnamenti sono perfettamente chiari e condivisibili. Ma mi chiedo, come posso ad esempio fare in modo che gli altri capiscano, che gli altri possano anche loro cambiare? Grazie.
R.: Per citare il Buddha, la tua sembra una situazione in cui il rifugio non è stabile e un po’ confuso. Capire gli insegnamenti, significa capire cos’è l’ignoranza fondamentale. Capire l’ignoranza fondamentale, ovvero quella forza cieca che ci fa trovare rifugio nei nostri sensi e nell’illusione del piacere che da essi a volte deriva, significa capire che il rifugio non è la fuori, in nessuna cosa. Allora se tutto questo per te è condivisibile, non puoi certo pensare che gli altri possono cambiare secondo le tue aspettative. Anche il solo desiderarlo è una forma di sottile coercizione della tua vita e di quella altrui. Il desiderio proietta un’immagine di quella persona che sarà un giorno, forse, con delle caratteristiche che tu pensi debba possedere. Quella persona per te al momento non esiste. Stai attendendo una nascita, un evento che esiste solo nella tua mente. Stai desiderando una gravidanza, che sarà certamente una gravidanza isterica, ovvero immaginaria. Stai attenta al senso di completezza, di santità e di bellezza che la tua mente ti propina sugli Insegnamenti, mentre invece nel quotidiano punta a fare quello che ha sempre fatto: desiderare per ottenere. Il senso di santità è un mascheramento delle nostre posizioni volitive e coercitive. Ci mettiamo a posto con noi stessi, dicendoci che tutto è chiaro e lo vuoi abbracciare, ma poi nelle pieghe della vita, le tue battaglie e le tue imposizioni restano le stesse. Solo che adesso anziché indossare la pelliccia di Crudelia Demon, indossi un saio (Risate).
D.: Buongiorno. Innanzitutto sono molto contento di essere qui oggi. La mia domanda è che mi rendo perfettamente conto dell’importanza dei ritiri e delle lezioni, ma poi a causa del lavoro e della famiglia non posso partecipare sempre alle lezioni e ai ritiri mi è quasi sempre impossibile. Puoi aiutarmi in questo?
R.: Certo! Lascia perdere. Non è importante. Non te ne preoccupare.
D.: Ma come non è importante. Io penso che lo sia. Quando vengo a lezione mi sento molto meglio e sto cominciando a vedere la bellezza di questi cambiamenti. Tutti la vedono attorno a me. Quindi penso che sarebbe ancor più importante anche un ritiro. Perché dici che non è importante?
R.: Se pensi che sia importante allora fallo. Trova il modo di farlo. Finché relegherai la pratica al ruolo di un’amante a cui tieni, ma che nascondi e che realmente non fa parte della tua vita, non c’è nulla che tu possa fare di più. La pratica è la vita e la vita è la pratica. Non c’è una separazione in questo concetto.
D.: Sì, ma il mio lavoro non mi consente di allontanarmi e quando ho delle ferie le passo con la mia famiglia.
R.: Queste sono cose personali in cui non posso e non voglio entrare. Quello che posso aggiungere e su cui puoi riflettere è che la pratica, anche da quanto tu denunci, aiuta a vivere più serenamente. Questo aiuta tutte le nostre relazioni, a capirne il significato profondo e a farle funzionare nel modo adeguato. Per questo la pratica è la vita. Ed essa comprende la tua famiglia e il tuo lavoro. Non esiste scissione se non nella tua testa che non è ancora pronta ad accoglierne il significato più profondo e più risanatore. Ci sono persone che dicono che non possono praticare perché sono agitate a causa delle loro famiglie e del loro lavoro. La cosa che non capiscono è che non sono agitati per quello, ma perché l’agitazione colpisce una mente-cuore non addestrata, una mente che non capisce il ruolo di quelle relazioni fino in fondo. La pratica è la lente che svela cosa c’è sul tavolo che sembra disabitato. E invece è pieno di vita. Spero andrà meglio. Auguri.
D.: Buongiorno Maestro. Io sono perfettamente conscio che la pratica è importante. Ho letto di tutto a tal proposito e sono profondamente convinto che sia un toccasana. Ma ogni volta che mi seggo, mi fa male tutto. Spesso poi mi agito, mi arrabbio, mi viene tristezza. A volte mi metterei ad urlare ed anche a piangere. E quindi devo smettere e non riesco a stare che pochi minuti. Come si fa?
R.: Come si fa cosa?! Quello che volevi fare lo hai fatto.
D.: Scusa non capisco.
R.: Intendo dire che quello che la tua mente, ovvero tu come sei oggi, in questo momento davanti a me, quello che essa voleva fare lo ha fatto. Ti ha dato tutto il supporto intellettuale che chiedevi. Ti ha fornito pazienza per letture infinite da poter prendere 2 lauree in Filosofie Orientali e Scienza dello Spirito. Poi tu invece vuoi metterti a fare sul serio, sedendoti!! Ed ecco che scoppia il putiferio. Quello che denuncia la meditazione, o meglio il tentativo di meditare, è l’esistenza di una sorta di armistizio, che invece tu, sedendoti, tenti di sabotare. Non c’è alcun parallelismo fra ‘cultura’ spirituale e vera pratica. Il Dhamma non si conquista fra le pagine di un libro. Spesso la gente si lamenta che non riesce a meditare. Non è che non riesca, ma non vuole. Non lo vuole veramente. C’è una convinzione intellettualistica di come dovrebbe essere la nostra vita, di come ci farebbe bene meditare. Ma in fondo non c’è il cuore in questa decisione. E’ come smettere di fumare senza alcuna consapevolezza. Si ha sempre voglia di fumare e si finisce per ricominciare dopo pochissimo. Il Dhamma non si trova nelle pagine di un libro che è stato tradotto dalla tua mente. Il Dhamma si trova nel mettere in pratica le 4 Nobili Verità e l’Ottuplice Sentiero. Il Dhamma si trova nel non lamentarsi di non riuscire, nell’essere gentili con noi stessi, nel capire che quelle difficoltà nascono dai nostri impedimenti, dalla nostra ignoranza, dalla nostra cecità. Quella comprensione ci rende finalmente elefantini felici per sederci sul cuscino della nostra mente, che scalpita, giustamente, quando ancora non ha capito. E’ come legare una persona senza dirle il motivo e convincerla dell’utilità di quel gesto. Credi che collaborerebbe?! Prova a vivere il Dhamma e ad essere sincero con te stesso.
D.: Invece io meditavo tutti i giorni e poi, pur avendo raggiunto i primi Jhana superiori, medito saltuariamente, non sempre. Cosa posso fare?
R.: Di solito questo è un problema per quelli che arrivano al 5° Jhana e ai Jhana superiori. Poi lentamente sparisce, se si continua a praticare però. I Jhana superiori proiettano un’immagine di se stessi e della vita in cui non esiste alcun proprio ruolo. L’ego si assottiglia così tanto, che molti allievi si fermano per paura. Paura di cosa? Paura di sparire, paura di non terminare i propri sogni. Tu sei giovane e la gioventù ci illude ancor più profondamente. I tuoi sensi ti spingono a trovare rifugio fuori di te, soluzioni fuori di te. C’è l’illusione che la felicità sia lì fuori, dentro qualcosa, dentro qualcuno. Poi la vita ci insegna (a volte con durezza indicibile) che così non è. Senza la pratica e la meditazione questa illusione diventa sempre più forte con il passare degli anni e diventa sempre più forte la nostra sofferenza, perché la verità non cambia. Senza la pratica, la nostra ostinazione a trovare la quadratura del cerchio fuori di noi ci rende la vita a volte insopportabile, piena di delusioni. Soffriamo perché gli altri ci deludono. E gli altri ci deludono, perché non vediamo la verità. Non vediamo il vero Rifugio. Vivere nell’illusione ci fa allontanare dalla pratica, perché non abbiamo ancora capito. E se abbiamo capito, non lo vogliamo ancora accettare. Ma quando non c’è accettazione, non si è capito fino in fondo. E’ come sapere che stiamo vivendo in un sogno, ma non vogliamo svegliarci. Ma il Buddha ci dice che è come non svegliarci mentre la nostra casa va a fuoco. Nessuno può aiutarti in questo denudamento della verità. Ci vuole onestà, coraggio e ci vuole una consapevolezza che svela l’inganno che ci tiene legati. Il Samsara è una droga. E come tutte le droghe esse ci fanno pensare che quella sia la felicità, non vedendo, invece, quanto la nostra vita cada a pezzi.
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