Centro Italiano di Meditazione
La vita mi ha regalato tante opportunità. Sono stata una figlia abbastanza felice, una donna abbastanza felice e tutto sommato una cittadina abbastanza felice. Mi sono avviata, come la stragrande maggioranza di noi, verso quello che non immaginavo essere un destino ineluttabile, un percorso prestabilito.
SuttaMagga
ARTICOLO
L'ultimo nascondiglio
(testimonianza di un'allieva)
Rifugio nel Dhamma
Quando si prende Rifugio nel Dhamma e non all'esterno di noi, si smette di vacillare e non si affonda più.
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Sociale


Come un piano di studi universitario, anche la mia vita procedeva di tappa in tappa, con tutta una serie di nuovi nastri da tagliare.
Eccomi dunque laureata, fidanzata, poi sposata ed infine mamma. Una bellissima casa, di cui ero orgogliosa, un marito belloccio e un figlio degno di tutto il mio amore. Improvvisamente però cominciai a soffrire di piccoli disturbi passeggeri. Un po’ di insonnia, un’arrabbiatura di troppo, un umore ballerino e pieno di picchi. In alto e in basso. Quello che la stragrande maggioranza di noi chiama vita, però. Cominciai a valutare la “causa” di questi miei malesseri e non vi nascondo che feci una lista polposa: mia madre, mio padre, mio marito, il mio professore, la mia maestra, le mie amiche e qualunque altra cosa che soddisfacesse il mio bisogno di autocommiserazione. Addirittura arrivai a coinvolgere mio figlio e l’essere madre. Avevo bisogno di espiare le mie traversie. I miei sintomi per quanto fastidiosi, mi regalavano ancora dei momenti di allegria e felicità… o almeno gioia. Ma sentivo che qualcosa si era spezzato.
Ho passato molti anni a cercare invano di incollare di nuovo quello che credevo spezzato. Ero sicura di aggiustare ciò che era rotto. Quello era il mio obiettivo. O meglio, la mia ossessione. Non volevo che il film in cui mi ero proiettata tanti anni prima, ovvero la mia vita, riportasse scene di periferia. Ero stata al centro e rivolevo il centro. Non mi piaceva la periferia della mia vita.
Inutile a dirsi che più tentavo di imbrigliare la mia felicità e autostima e più soffrivo. I piccoli disturbi notturni mi portarono a volte a fantasticare una vita diversa, mentre una strana frenesia mi prendeva alla bocca dello stomaco, come se dentro di me qualcuno scavasse delle gallerie di vita parallela. Non avevo assolutamente idea allora che quello che io chiamavo malessere era l’inizio del mio risveglio da una vita fatta di finti palazzi, di corone e cortigiane. Fatta di ruoli e di proiezioni. La nostra vita è spesso un’olimpiade alla ricerca di soddisfazioni. Una vita che io osavo definire felice, solo perché socialmente lo rappresentava.
Il malessere mutò. Divenne sordo e profondo, come quando si getta un grande sasso in uno stagno. Si vedono solo le onde che provoca, illudendosi di essersi liberati di un peso. Cominciai a fantasticare sulle avances di un bellimbusto che vedevo la mattina al bar, durante la colazione. Non ci volle molto per ritrovarmi nelle sue braccia fredde e frettolose, fiduciosa di aver trovato una nuova dimensione.
Il dolore esistenziale si zittì per un po’, o meglio era stato subissato dall’eccitazione di essere di nuovo al centro dell’attenzione. Ovviamente la relazione abortì nel suo “tiepido” squallore, fatto di bugie e inganni. Ma non riuscivo a lasciarlo. Quegli appuntamenti e appostamenti nutrivano un perverso bisogno di essere riconosciuta sotto altre spoglie.
Divenni una brava attrice, o meglio quello che poi Pirandello considerava essere il malessere degli esseri umani: diventare uno, nessuno e centomila, avere molte maschere da indossare al momento opportuno. Ero madre dolce, moglie premurosa e un’amante appassionata. Questi continui strappi alla mia persona affondarono la mia autostima. Il senso di colpa si proiettava sugli altri, soprattutto su mio marito, che divenne oggetto dei miei silenzi e dei miei scatti di ira. Mi illudevo che le mie “vacanze” amorose fossero un mio diritto per il destino che gli altri mi avevano cucito addosso, con le loro assenze, le loro pecche.
Che assurdo errore! Quanta sofferenza causiamo a noi stessi!
Incontrai il mio Maestro di meditazione tramite un ritiro. Imparai a meditare per la prima volta, seriamente, nonostante avessi frequentato svariati centri e letto milioni di libri. Ero attratta dalla possibilità di vivere in pace. Il percorso scavò in me delle buche profonde, che misero a nudo le mie miserie personali. Cominciai a vedere che tutto il mio destino era stato intessuto solo dalle mie mani, che avevo creduto erroneamente che gli altri fossero i miei detrattori, la causa del mio malessere esistenziale.
Crollarono i palazzi dell’autocommiserazione, in cui avevo soggiornato per tantissimi anni. Tutti i miei nascondigli che avevo opportunamente disseminato nella mia mente, svelarono la loro inconsistenza, il loro debole e saltuario rifugio.
Il Buddha ci insegna che il Rifugio vero e definitivo è nella nostra Mente e che tutte le nostre sofferenze, come anche la nostra liberazione e felicità definitive, sono lì. Il vero Rifugio implica il coraggio di ospitarsi, dopo aver deposto le mille maschere dietro cui ci siamo nascosti. Le mie frustrazioni volevano trovare soddisfazione nelle povere mani di uomini e donne che a loro volta erano intrappolati nei loro nascondigli.
Ognuno di noi vuole raggiungere la propria felicità, ma la nostra vanità, ottusità, cecità per dirla tutta, ci spinge verso direzioni senza ritorno. Ci si smarrisce in una landa deserta senza fine. Ognuno munito della propria bussola ubriaca, che stringiamo con tanta forza, ma che non consente alcun vero incontro.
Ho camminato a lungo in quel deserto fatto di miraggi e di finte oasi. Ho respirato a lungo il calore pungente di quell’arido percorso. Per fortuna ho “riconosciuto” il Dhamma, esposto dal Buddha. Ho detto appositamente riconosciuto, perché non basta solo inciamparci sopra. Quando si è ciechi, dominati da un ego che ancora ci controlla, si crede di sapere ciò che vediamo e ciò di cui abbiamo bisogno. Ma alla fine passiamo di anno in anno alla ricerca di qualcosa che non arriverà mai. Le mille occasioni sono solo nuove terapie palliative, nuovi farmaci placebo per riaddormentarsi ancora un po’.
Per riconoscere il Dhamma bisogna abbandonare la nostra dimensione egocentrica, lasciarsi attraversare dalla sua linfa guaritrice. Bisogna lasciare che le sue leggi operino e mostrino l’ineluttabile verità. Non è un mero credo, ma è riacquistare finalmente la nostra potente vista interiore.
Scalza e senza orpelli mi addentrai in questo sentiero, fiduciosa, e scoprii quella meravigliosa città dentro di me, abbandonata e nascosta dalle ombre del mio ego, che il Buddha descrive come la nostra regale dimora, abbandonata molto tempo fa e a cui bisogna fare ritorno se veramente si vuole essere felici.
Auguro a tutti di riscoprire la loro vera cittadinanza e il vero Rifugio, abbandonando l’ultimo nascondiglio, per non nascondersi più, come prede in continua fuga
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